Çamlıca-Migliore Guida

Con i suoi monumenti e le sue bellezze storiche ed archeologiche, andiamo a dare una rapida occhiata al panorama della Metropoli e del Bosforo dalle alture di Camlica.

Ancora una volta partiremo da piazza Uskudar, passeremo davanti alla moschea e al mausoleo visti in mattinata e imboccheremo la strada che ci sta di fronte.

Infatti, mentre quella a destra conduce al cimitero di Karaca Ahmet e, superatolo, si congiunge con l’autostrada per Ankara, la vecchia rotabile che abbiamo di fronte conduce a Kisikli, anche per mezzo di una linea tranviaria che parte dalla piazza, e anche a Kucuk Camlica. A sinistra c’è un’altra strada che porta invece alla sommità di Buyuk Camlica.

 

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Più facilmente si può salire a Camlica per i ponte del Bosforo e attraverso la strada periferica, seguendo i pannelli stradali «KISIKLI».

Kucuk Camlica è un’incantevole pineta in mezzo alla quale saliremo per raggiungere la cima di Buyuk Camlica.

A parlare di questo incantevole luogo non si può fare a meno di pensare allo scrittore Abdulhak Sinasi Hisar, il noto poeta del Bosforo, che scrisse un’opera indimenticabile intitolata «Nostro zio di Camlica». L’autore (fra i migliori del mondo e che, secondo il destino dei geni incompresi, il mondo conoscerà quando sarà troppo tardi) ha lasciato una appas­sionata descrizione di Camlica dove trascorse buona parte della fanciullezza.

Quanto a me, guidandovi per questi luoghi, tenterò di far risaltare davanti ai vostri occhi un ambiente che la penna del mio vecchio e illustre amico A. S. Hisar così bene descrisse.

L’autore ci racconta che quando abitava in uno degli «yali» sul Bosforo, sembrava trarre piacere a ogni singola goccia delle fresche acque del mare. Quando fu a Camlica, gli parve di respirare tutti gli effluvii di un’aria fresca e profumata. I seguenti nomi ci rivelano l’atmosfera pittoresca di questa contrada: «Fistik agaci» (albero del pistacchio), «Bagiarbasi» (la punta dei vigneti), Serviik (il bosco dei cipressi), Nuh Ku- yusu (la fonte di Noè). Con l’espansione della città e la scomparsa, in buona parte, di alberi e verdi campi, tutti questi nomi pittoreschi hanno perduto il loro significato. Quanto a Camlica, l’autore, nel descriverla, afferma: «Questa terra rivela notevoli virtù, tutto è in rigoglio, fiorisce, si dilata; i fiori e- spandono ovunque i loro profumi, i rumori si armonizzano con la natura, la natura respira nel calore, i fiori profumano l’aria, il sole spande i suoi raggi benefici, gli insetti cantano libera­mente e l’uomo sembra fluttuare in mezzo a tutte queste emanazioni di cui mai sospettò l’esistenza!

Non possiamo andarcene senza rimpianto, dopo le stupende descrizioni di questo valoroso scrittore, ma le sue immagini letterarie ci seguiranno sempre nei nostri pensieri quando lasceremo Camlica per andare a visitare, lontano a sinistra, le isole, con Istanbul e i suoi dintorni di fronte a noi e il Bosforo sulla destra.

Il Maestro (infelice in vita e mai riconosciuto nel suo vero valore letterario) descrive Camlica come parte inscindi­bile del panorama di Istanbul che sta di fronte, con tutti i suoi colori ed effluvii naturali.

«A Camlica la primavera comincia con un chiaro mattino, ricco di aria sana e rinvigorente che ispira gli uccelli nei loro canti mattutini… la primavera che fa defluire lentamente le acque dalla riva che avevano prima invaso; la primavera con tutto il vigore iella sua linfa che nutre la terra e gli alberi e riempie i nostri occhi di meraviglie.»

«Le donne avevano l’abitudine di recarsi a fare una pas­seggiata in quelle ore mattutine. Indossavano le loro «machellah» o altri indumenti, I capelli coperti da un bel fazzoletto e correvano per i campi. Erano anche i luoghi delle nostre piacevoli passeggiate che ci davano meno poetiche gioie come il bere una ciotola di latte al mattino. Giocavamo come bambini in vacanza. L’atmosfera, appena toccata dalla brezza nottur­na, era fresca e pareva levarsi da un sonno ristoratore, i profumi recavano ancora l’umidità della notte, ma non per questo d’una limpidezza meno brillante. Verso mezzogiorno il sole dorato ardeva con tutti i suoi raggi, scaldando l’aria, lasciando una striscia azzurra di luce nel cielo, rinfrescata solo da una brezza leggera. I passanti, con la mente immersa nei loro problemi quotidiani, non mostravano stanchezza e i loro cuori, anche se colpiti da ferite profonde, non li avrebbero traditi per mezzo di un gesto o di un atteggiamento… L.e dolci e serene ore della sera erano ancora lontane, ma noi bambini, non prima che si levasse la calura pomeridiana sapevamo deciderci a lasciare le signore, a rinunciare alla gioia di correre liberi per i prati in loro compagnia per rientrare».

 

Fiori di campo, aperti alla vita ma sul punto di appassire levavano le loro corolle dovunque, nei luoghi più isolati, offrendo all’osservatore un quadro policromo quanto mai piacevole a vedersi, alberi in piena fioritura aggiungevano il loro incanto a questa scena deliziosa, la brezza leggera li­berava i profumi più tipici di Camlica odorosa! Menta, timo, lauro, violetta, rosa selvatica, cedro, fiori sconosciuti dai pallidi colori e dal profumo avvincente, pini resionosi e acacie che profumano l’aria purificandola. Si provava una grande sensazione di benessere, di riposo e di quiete a ogni respiro e il cuore sembrava assorbire ogni goccia di questo confortante elisir della vita. Era come se ci trovassimo in un altro clima; a camminare per i prati, nell’erba alta, in mezzo ad alberi superbi, resi immortali da tutte le loro primavere, ci pareva di nuotare in un mare di benedizioni.»

 

Quella mattina i richiami degli insetti erano più vivaci, più gai… eravamo in grado di capire chiaramente il linguaggio delle cicale che frinivano e se i nostri vecchi ci deridevano negando le nostre asserzioni, fingevamo di non comprenderli. Le cicale cantavano sempre in coro la stessa canzone: ‘la formica ci crede stupide, stupide, stupide…’. Questo il canto nel riposante bosco di Camlica. Le cicale intessevano le reti della loro vita dorata tentando di fissarle nella memoria e nell’anima del loro uditorio».

 

A parte questi suoni che s’intrecciavano nelle ore meri­diane, Camlica non si può dimenticare per quanto riguarda il gorgheggio degli uccelli. Sin dalle prime ore del mattino, passeri, cardellini e altri uccelli, nascosti dietro ì cespugli o librati in eleganti volteggi raso terra, tutti i tipi di uccelli i cui nomi non posso ricordare, gorgheggiavano e cinguettavano nei prati ancora umidi della rugiada delll’alba… Poi, con il cadere della notte, mentre sulla natura calava uno scuro velo, avreste potuto sentire lo strillo di un rauco gufo.»

 

«Che dire poi della nostra vecchia signora, la negra Ferahidil, la compagna che amava prendere parte ai nostri giochi? Per via dei suoi semplici e antiquati vestiti, potrei solo paragonarla a qualche fiore di campo appassito, di incerto colore; un fiore il cui nome io non saprei trovare né, temo, qualcuno sarebbe in grado di dirmi!»

«Una brezza leggera accarezzava gli alberi, le ville e la gente. L’aria aperta, specie a Camlica, aveva una particolare levità, dovuta all’altezza e alla purezza del luogo».

«Tale era la quiete che il frinire delle cicale sembrava riempire l’universo, ma tutto quel chiasso non turbava il silente incanto che metteva in risalto la bellezza».

Quando scendeva la sera, gli alberi, orgogliosi e sensibili, rivelavano con i loro fruscii ciò che avevano sentito e provato nel corso della loro giornata… vegetativa. Con il cadere del­l’oscurità, i canti degli uccelli e i rumori del giorno cessavano, insieme ai fruscii degli alberi e degli arbusti. Il silenzio della natura si comunicava agli uomini inducendo anche loro alla quiete del riposo».

«Il panorama di Istanbul dalle alture di Camlica, vista in un giorno sereno, sotto il cielo azzurro e bagnata lungo la linea delle sue riviere dalle onde blu del mare, è uno spetta­colo davvero magnifico; da questa altezza, particolarmente, la città si stende davanti ai nostri occhi, ci abbaglia con il suo incomparabile splendore, la sua estensione e le sue meravig­lie».

«E’ una visione senza uguale che spiega come i primi uomini giunti lassù rimasero affascinati al punto da idolatrare le cose e le bellezze che stavano contemplando. Infatti, potete quassù constatare con i vostri occhi l’importanza che la storia ha riservato all’incomparabile Istanbul ed anche provare l’ incantevole sogno a occhi aperti di questa città unica al mondo, bagnata dalle onde calme e azzurre».

 

«Se osservate dal mare il centro abitato con i vari quaz- tioi le sue colline, potete rendervi conto come una città ha preso forma dall’agglomerato di vari quartieri. Per comincia­re, possiamo capirlo osservando le pacifiche case di Uskudar che spuntano fra il beneamato fogliame dei loro alberi, poi, ai margini delia periferia asiatica, ìi Bosforo color turchese che splende di una lucentezza metallica, sinuoso come una striscia di mare, e Istanbul, di fronte, con le sue spiagge increspate dalla spuma del mare e le alture a terrazze. Questo è il meraviglioso spettacolo, che abitualmente tutto non vediamo e che qui invece ci si squaderna in tutta la sua interezza. Le moschee, i loro minareti, gli edifici pubblici e privati, l’intera città sono distesi, silenti, sotto il nostro sguardo. La zona del Serraglio, nel punto in cui il Marinara si allarga, è situata sui bordi del mare; si scorgono, sotto alberi frondosi, le cupole, le torri e le terrazze del vecchio palazzo».

 

«A destra della zona residenziale e della costa, le alture sono nude. Parte del Bosforo fra Yildiz e Kuruceşme è boscosa e si apre su picchi che sovrastano gli stretti e sembrano formare, visti in distanza, una serie di piccole isole verdi».

«A sinistra, Istanbul sembra restringersi verso Florya, dove, a una certa distanza, si confonde nell’azzurro dell’oriz­zonte».

Al centro del Marmara, in un angolo fuori mano, giacciono le isole, sonnacchiose, dai toni scuri, riposanti… e, ancora alla nostra sinistra, il cimitero di Karaca Ahmet con i suoi alberi centenari e i suoi cipressi funebri, luogo di riposo per coloro che non appartengono più a questo mondo… quei poveri cipressi; io posso solo paragonarli a una moltitudine di der­visci, con i loro alti berretti, vestiti nei loro abiti rituali, di ritorno, tristi e cupi, da un funerale, immobili come conifere di ottone…»

«Istanbul sembra svanire nella sera e perdere la vivacità delle sue tinte come una rosa; assume via via tutti i colori della^ tavolozza di un pittore per poi confonderli nei toni più scuri e conquistare l’ombra della notte. Questo miscuglio di tinte, filtrato attraverso un filtro blu, che si imbruna per sprofondare poi nel silenzio, ha l’effetto di un’armonia musica­le. Il cielo che sovrasta Istanbul sembra desideroso di abbrac­ciare e avvolgere la città, tirandola a sé; per un momento sembra sospesa nell’aria, che perda le radici che la trattengo­no sul terreno e si confonda ancor più con i colori del cielo. Come la luce del giorno digrada, le tinte azzurre si stemperano in un’ombra scura, argentata, poi si oscurano e si perdono all’orizzonte fra gli ultimi raggi del sole morente riflettendo lutto le varie sfumature della fine del giorno; un giorno che vivo ancora nei suoi sogni irrealizzati e nei suoi desideri inappagati. Anche a noi sembrava di prendere parte a questo •ionsazionale spettacolo, a queste colorazioni del cielo e del­la natura; avevamo ia sensazione di aspirare l’essenza pro- imnata di istanbul mentre svaniva nell’oscurità e chiudeva gli occhi come una persona amata in cerca di riposo. Questo Imgrante profumo delia città che riempiva ii nostro essere lino a diventare ottundente, finiva per impossessarsi del nostro spirito e per soggiogare i nostri sensi…»

 

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